HOW TO SAVE DRAFTS
Romain Blanck
26.05.24 – 30.06.24
The question “How to save drafts?” to make any kind of sense beyond a playful provocation, has to be translated into something more specific such as “How to preserve something original, not yet ready for the audience?”. Read in this way, the new sentence opens up to multiple speculations of thought and, more than anything else, places emphasis on three fundamental points: preserving, originality and the public; hence the further questions: What does preserving mean today? What can still be considered original? What kind of public or audience exists? Questions to which it would take much more time to attempt less than exhaustive answers but which in some way interest Romain Blanck (1995, Düsseldorf – lives and works in Berlin) who attempts to answer these and other questions through painting.
In the solo show “How to save drafts”, the artist preferred to concentrate his production on the idea of duplicability, a topic of interest by masters of thought such as Walter Benjamin who was the first to understand how reproducibility was antagonistic to originality and how the archetype would soon leave the placed on the stereotype, taking away that special aura of the Hic et Nunc.
It almost seems that Blanck is tempted to reproduce a system of anthropological and social signs for a sort of pictorial “extractism”(a much more evocative definition than abstractionism). He extracts and recomposes, undergoing the fascination and that sense of freedom given by a pictorial automatism.
His research moves within the dynamics of sociality with an ambivalent attitude between reality, albeit purified of a personal vision, and social activities typical of multimedia. His canvases become a dense layered tangle of cognitive elements that catch the viewer unprepared and will find himself in the challenging position of having to interpret a work that is as familiar as it is unknown.
One of the constants in the artist’s work is certainly the practice of trompe-l’oeil which brings us to the first of many paradoxes: he doesn’t reproduce real objects or elements but is concerned with impeccably giving us unique abstract signs and digital symbols; nothing therefore real. The sum of these, which entirely covers the various pictorial surfaces, generates a visual chaos that Blanck attempts to reorder through his practice. The chaos is reordered to be visually returned to us, defining a further paradox. It therefore becomes difficult to establish in the artist’s research what can be considered truly original, because the pictorial medium makes each work unique and unrepeatable, but at the same time nothing of what we see on the canvas comes directly from the unique vision of the artist. Blanck assumes more of the transfer position which uses chaotic elements with the commitment to faithfully translate and visually organize them in space to give life to moments of communication, which require attention but also a profound sense of freedom of thought.
However, it does not mean we aren’t witnessing deprivations of the gaze, first of all the denial of voids. The canvases are filled through stratifications of visual elements that do not allow us moments of breathing. And it is precisely the redundancy of information that erases that barthesian idea of punctum whereby there is no way to feel an irrational emotion in a precise point of the canvas, generating the equation according to which the whole is worth as much as the single parts.
We can experience a sense of general alienation more if we pay attention to the vertical structures that exist scattered throughout the exhibition spaces. This is the result of a site-specific operation designed during the week of residency, it is the affirmation of how that effect of visual redundancy generates mental short circuits. Seeking a clear separation between real and non-real becomes a truly arduous undertaking. The inscriptions on the installation as well as the painted stickers are both popular manifestations brought here to stay together in a situation that exists at the limit of the collective and the individual action. Once again, all of us are called to observe in the complex situation of understanding a sensation of deja-vu with blurred contours.
Almost a century has passed since the publication of Benjamin’s most famous treatise but the question of reproduction takes on a more decisive role today more than ever, precisely because we are dangerously approaching the reproduction of social dynamics, more than things, through increasingly conventional showcase processes. Blanck’s canvases, exactly in the second compositional step, when painted digital stickers overlap and cover some parts of the scribbles, therefore maybe becoming just a background,
ensures that the canvas is actually ready to go in public. The artist tries to highlight how close we are facing to the most alarming of the paradoxes of the contemporary art system, according to which the photographic reproduction of a work becomes the only one to exist online and consequently of real interest to an extended community. In other words, the fulfilment of Benjamin’s thesis at the highest levels: the copy has become far more necessary than the original, becoming itself the perfect original.
Maurizio Vicerè
La domanda “Come salvare le bozze?” per avere senso al di là della provocazione giocosa, deve essere tradotta in qualcosa di più specifico, ad esempio: “Come preservare qualcosa di originale, non ancora pronto per il pubblico?”. Letta così, la nuova espressione si apre a molteplici speculazioni del pensiero e, più di ogni altra cosa, pone l’accento su tre punti fondamentali: preservare, originalità e pubblico; da qui le ulteriori domande: cosa significa oggi preservare? Cosa può essere ancora considerato originale? Che tipo di pubblico o audience esiste?
Domande per le quali occorrerebbe molto più tempo per poi ottenere delle risposte poco esaustive ma che in qualche modo interessano Romain Blanck (1995, Düsseldorf – vive e lavora a Berlino).
Per la mostra personale “How to save drafts”, l’artista ha preferito concentrare la sua produzione sull’idea di duplicabilità, tema d’interesse di maestri del pensiero quali Walter Benjamin che per primo capì quanto la riproducibilità fosse antagonista all’originalità e come l’archetipo avrebbe presto lasciato posto allo stereotipo portando via con sé quell’aura speciale che è propria dell’hic et nunc. Sembra infatti che Blanck sia tentato di riprodurre un sistema di segni antropologici e sociali per una sorta di “estrattismo” pittorico (definizione molto più a fuoco di astrattismo). Egli estrae e ricompone, subendo la fascinazione e quel senso di libertà dati da un automatismo pittorico.
La sua ricerca si muove all’interno di dinamiche sociali con un atteggiamento ambivalente tra realtà, seppure depurata da una visione personale, e le cadenze sociali tipiche della multimedialità. Le sue tele diventano un fitto groviglio stratificato di elementi cognitivi che colgono impreparato lo spettatore ponendolo nella difficile posizione di dover interpretare un’opera tanto familiare quanto sconosciuta.
Una delle costanti nel lavoro dell’artista è certamente la pratica del trompe-l’oeil che ci introduce il primo di tanti paradossi: egli non riproduce oggetti o elementi reali ma si preoccupa di regalarci in modo impeccabile segni astratti e simboli digitali unici; niente di propriamente realistico. La somma di questi, che ricopre interamente la superficie pittorica, genera un caos visivo che Blanck tenta di riordinare attraverso una pratica meticolosa. Il caos viene riordinato per esserci restituito visivamente, definendo un ulteriore paradosso. Diventa quindi difficile stabilire cosa possa essere considerato veramente originale, dato il mezzo pittorico a rendere ogni opera unica e irripetibile, ma allo stesso tempo nulla di ciò che vediamo sulla tela proviene direttamente da una visione intima dell’artista. Blanck assume più la posizione di transfer che utilizza elementi caotici con l’impegno di tradurli fedelmente e organizzarli visivamente nello spazio, per dare vita a istanti di comunicazione. Ciò non significa che non assistiamo a privazioni dello sguardo, prima fra tutte la negazione dei vuoti. Le tele si colmano attraverso stratificazioni di elementi visivi che non permettono attimi di respiro ed è proprio questa ridondanza di informazioni a cancellare quell’idea barthesiana di punctum, per cui non c’è modo di provare un’emozione irrazionale in un punto preciso della tela, andando così a generare l’equazione per cui l’insieme vale quanto le singole parti.
Possiamo sperimentare maggiormente questo senso di straniamento generale se prestiamo attenzione alle strutture verticali che spuntano sparse nelle due sale, risultato di un’operazione site-specific ideata durante la settimana di residenza. Queste non sono altro che l’ennesima affermazione di come quell’effetto di ridondanza visiva possa generare cortocircuiti mentali. Trovare una separazione netta tra reale e non-reale diventa un’impresa davvero ardua.
Sia le iscrizioni sulle installazioni che gli adesivi dipinti sono entrambe manifestazioni sociali riprodotte in questo contesto per vivere insieme; in una situazione che esiste al limite delle azioni collettive e individuali. Ancora una volta tutti noi siamo chiamati a osservare una situazione complessa provando una sensazione di déjà-vu dai contorni sfumati.
È passato quasi un secolo dalla pubblicazione del più celebre trattato di Benjamin ma il tema della riproduzione assume oggi più che mai un ruolo decisivo, proprio perché ci avviciniamo pericolosamente ad una moltiplicazione esponenziale delle dinamiche sociali, attraverso processi di vetrinizzazione olografica sempre più convenzionali. Le tele di Blanck, esattamente nella seconda fase compositiva, quando gli adesivi digitali ri- dipinti si sovrappongono e coprono alcune parti degli scarabocchi, assicurano che la tela sia effettivamente pronta per essere esposta al pubblico. L’artista cerca di sottolineare quanto siamo vicini al più allarmante dei paradossi del sistema delle arti visive contemporanee, secondo il quale la riproduzione fotografica di un’opera diventa l’unica a esistere online e di conseguenza di reale interesse per una comunità allargata. In altre parole, la realizzazione della tesi di Benjamin ai massimi livelli: la copia è diventata ben più necessaria dell’originale, diventando essa stessa l’originale perfetto.
Maurizio Vicerè